“Non chiamateci eroi, chiamateci infermieri”. La t-shirt bianca prende il posto del camice e piazza Duomo si riempie di volti e palloncini rossi a forma di cuore. Chiara Trione, 35 anni, fa parte di quel migliaio di infermieri che qualche giorno fa, a Milano, ha chiesto al governo di non voltare le spalle agli infermieri dopo l’emergenza Covid-19. Per mesi, durante la pandemia, gli infermieri e gli operatori sanitari sono stati in prima linea contro il virus: orari borderline, turni infiniti, a rischio costante di contagio e in tanti si sono ammalati o sono morti. Prima osannati come eroi nazionali e ora dimenticati. Ma cos’è successo in questi tre mesi?
“Non ci siamo mai sentiti degli eroi”, mette in chiaro l’infermiera milanese, che oggi si dice contenta di non essere passata, per un solo posto in graduatoria, al test d’ingresso di Ostetricia. “A volte il destino ha solo bisogno di tempo”, dice alla fine di un’esperienza che ricorderà per tutta la vita. “Non so cosa mi ha fatto andare avanti. Forse l’amore per quello che faccio e le storie dei miei pazienti. Sapere che avevano solo noi e che le famiglie ce li avevano affidati”. Ma non chiamateli eroi. “Abbiamo sempre cercato di fare il nostro lavoro bene. Ad un certo punto, dopo qualche settimana, è esploso il boom degli ‘eroi’. Ci siamo stupiti che l’opinione della gente sulla nostra professione fosse cambiata in modo così repentino”.
Una professione, quella sanitaria, che Chiara ha scelto come missione. Dopo la laurea, nel 2007, Chiara ha iniziato a lavorare come infermiera al Pronto soccorso dell’Ospedale Sacco di Milano. Area critica, l’unità operativa afferente al mondo dell’emergenza e della terapia intensiva, un campo di applicazione che Chiara, “folgorata dalla necessità di capire i meccanismi sofisticatissimi su cui si basa il corpo umano”, negli anni ha affinato con un master in Anestesia all’università Bicocca di Milano e altri corsi. Una specializzazione che “mi sono trovata a spendere in questi mesi” di pandemia.
A fine febbraio arriva la chiamata per coprire un turno in Terapia intensiva. Da quel giorno non l’ha più abbandonata. “Dopo quella notte, sono entrata a fare parte di una equipe di 70 infermieri che avrebbe lavorato in area critica. In meno di una settimana abbiamo traslocato un intero reparto da un padiglione a un altro e abbiamo creato più di trenta nuovi posti letto”. Di quei primi giorni, Chiara ricorda solo il caos. “Non solo quello che ci portavamo dentro. Come infermieri sapevamo cosa fare, il problema era come farlo: non avevamo mai operato in condizioni così straordinarie”.
Tuta in tyvek con cappuccio, la mascherina sulla bocca e la visiera che lasciava segni, spesso solchi sulla fronte. All’inizio i turni erano di 5 o 6 ore. “Mi ricordo le divise madide di sudore e il mal di gola che ci preoccupava, ma che era da imputare alle urla che sprecavamo per parlare tra di noi con tutti i presidi addosso che attutivano le nostre voci. I primi giorni arrivavo a casa e mi buttavo sul letto, esausta. Avevo male a tutti i muscoli del corpo e mi sembrava di avere percorso la maratona di New York”. Intanto però arrivano anche le prime manifestazioni d’affetto e qualche gesto di solidarietà come “Chef in corsia”, la cordata di ristoratori che ogni giorno durante l’emergenza ha regalato la cena a medici e infermieri impegnati a fronteggiare l’emergenza. “Ho ricevuto molti messaggi di vicinanza, anche da persone che non sentivo da anni, ma che si ricordavano che lavoro in ospedale”.
Ma ripensando a qui giorni in corsia, in piena emergenza, Chiara non nasconde i momenti di difficoltà. “Fin da subito abbiamo dovuto fare i conti con le prime perdite. Poi c’erano i pazienti giovani da intubare e i malati che non guarivano come speravamo. Ricordo l’impotenza e lo sconforto cercando di interpretare i sintomi e trovare un rimedio a quei numeri sui monitor”. Fino alle prime notizie positive. “Non dimenticherò mai la prima dimissione: un ragazzo giovane. Si è allontanato, a piedi. Teneva la mascherina dell’ossigeno in mano e ai piedi trascinava un paio di ciabatte blu. Prima di uscire dal reparto, lo abbiamo chiamato per cognome: lui si è girato e ha alzato l’altra mano come a dire ‘ciao’. Quel momento ci ha caricato di positività per le settimane successive”.
La forza, in quei momenti, è arrivata anche dalla seconda famiglia che è nata in reparto, tra medici e infermieri in prima linea impegnati, giorno dopo giorno, a combattere contro il virus. “I colleghi che prima incrociavo nei corridoi, ora hanno un nome e una storia. Nei momenti liberi ci trovavamo per riordinare le montagne di farmaci e altri materiali che avevamo dovuto trasferire in tempi rapidissimi da un giorno all’altro e che giacevano in corridoio. Siamo diventati una famiglia: c’erano mamme, sorelle, amici, figli. Eravamo, o cercavamo di esserlo, allegri, rassicuranti, comprensivi. E sempre pronti”.
I suoi genitori, invece, Chiara, non li ha visti per tre mesi. “Ci sentivamo con le videochiamate. A casa, da sola con la mia gatta, Olivia, ho cucinato più del solito: era un modo per rilassarmi e liberare la mente”. Prima di tornare, di nuovo, in reparto dove tutto era più complicato. “Di solito, con alcuni colleghi basta guardarsi in faccia per intendersi e agire senza fare trapelare nulla al paziente, specialmente se si trova in situazioni critiche o è spaventato. Ma in questi mesi con mascherine, tute e visiere, la mimica facciale è stata mutilata: avevamo solo gli sguardi per comunicare. Abbiamo imparato a interpretare le occhiate. Per esempio, vedere strizzare gli occhi faceva capire che dietro la mascherina c’era un sorriso. Altre volte le lacrime non lasciavano dubbi”.
Sono stati mesi tosti. “Siamo profondamente cambiati. Medici o infermieri, non importa dove si è operato. Questo momento lo ricorderemo per sempre. La forza, che ciascuno di noi ha avuto, e la professionalità, di cui abbiamo preso coscienza, le porteremo sempre con noi. Abbiamo dato tanto. Abbiamo anche sbagliato tanto. Ma da questi errori abbiamo imparato sempre più in vista di un obiettivo comune”. E adesso? “Non so quanto ci metterò a rielaborare il tutto: lo farò piano piano. Ma tornare a quei giorni, alle origini di questa pandemia, sarà un processo lento e consapevole che ci farà stupire di noi stessi”.
Intanto la vita dentro e fuori l’ospedale continua. Chiara, che ama viaggiare e ha una passione sfrenata per il ballo, spera di tornare presto a “vivere e respirare il mondo”. La Fase Tre è iniziata e si percepisce un po’ ovunque un cauto ottimismo. “Una riapertura era necessaria”, ne è convinta l’infermiera che si augura, però, che le persone “siano in grado di adottare i comportamenti migliori per garantire la sicurezza di tutti”.
Nella sua testa c’è ancora l’immagine della lavagna del reparto, piena di nomi e appunti. Una tabella che si è svuotata solo qualche settimana fa: una liberazione, una gioia dopo tre mesi di eccezionali fatiche. Per celebrare il momento ha scattato una foto e l’ha pubblicata su Instagram con una dedica: “Ci siamo messi in gioco pur non sapendo cosa sarebbe successo. Non ci siamo mai risparmiati e abbiamo formato un gruppo unico nel suo genere. Grazie colleghi per avermi accompagnata in questo pezzo di cammino in era Covid-19”.