Lettere a Litchfield – “Scopro dai giornali che la clinica dove mi hanno visitata aveva un focolaio di Covid. Ma nessuno mi ha avvisata”

Squilla il telefono. È mia madre. “Devo dirti una cosa”. Mi parla di un articolo del Corriere della Sera (qui il link per leggerlo) firmato da Gianni Santucci. Vado a leggerlo:

Al centro Igea si sono infettati 23 infermieri e 13 dottori, tra cui molti con polmoniti. Positivi anche il proprietario e lo staff amministrativo”.

Leggo l’articolo e mi si gela in sangue. “Li ho chiamati lunedì e nessuno della segreteria mi ha detto niente. Ma com’è possibile?”, mi chiedo tuttora incredula. Sento la rabbia che mi sale e faccio il conto dei giorni da quando ci sono stata l’ultima volta per una visita. Sono passate due settimane. Meno da quando ci è stata mia madre, prima per un esame e poi per ritirare dei referti.

Ripercorro nella mia mente la scena di quando sono entrata e penso alla lunga coda di anziani al banco del ritiro referti. Poi l’accettazione. Tutte le sedie attaccate che nessuno aveva preso la briga di distanziare. “Ok, sto in piedi”, ricordo che mi sono detta cercando di mantenere una distanza minima dagli altri pazienti anche se, essendo in un corridoio, non era facile.

Arriva il mio turno e mi avvicino al banco dell’accettazione. L’impiegato prende la mia ricetta e la mia tessera sanitaria. È senza mascherina. Senza guanti. Senza nessuna protezione. “Che strano”, ho pensato lì per lì. Ma non mi sono posta il problema più di tanto.

Me lo pongo ora leggendo questo articolo. Il Corriere scrive che, secondo quanto appreso dalle loro fonti, alcuni hanno lavorato, seppur con sintomi, infettando colleghi e pazienti. E poi trascrive una lettera che il proprietario dell’Igea avrebbe mandato ai responsabili sanitari:

“Carissimi, siamo in un momento particolare del nostro lavoro, dobbiamo prevenire il panico e le paure immotivate! Per fortuna siamo tutti in buona salute… siamo di fronte a una patologia virale che come l’influenza non ha una cura specifica… Ad oggi solo le persone malate o sospette devono indossare le mascherine e altri isolanti. Per cui nessuno che non sia malato deve indossare Dpi (le protezioni, ndr) che significherebbero una auto dichiarazione di malattia. Tutto ciò in accordo con le disposizioni regionali. Cordialità”.

Certo, una lettera del 23 febbraio, secondo l’articolo. Ben prima che la situazione precipitasse e iniziassimo a capire che cosa avevamo davanti. Ma poi, le disposizioni interne saranno cambiate? La mia mente torna di nuovo al personale senza mascherine o altri supporti sanitari a protezione loro e di chi li circondava. E ai pochi che, invece, li avevano.

Se nell’articolo si legge che le prestazioni sono andate avanti fino all’11 marzo, io sono sicura che almeno fino al 13 era ancora possibile farsi visitare. Non so fino a quando poi abbiano continuato. Anche se mi era stato detto che, probabilmente, a breve, avrebbero ridotto le prestazioni non urgenti. E così è stato. Lunedì ho contattato il centro prenotazioni della clinica e mi è stato risposto che, almeno fino al 6 aprile, non sarebbe stato presente nella loro struttura uno specialista per gli esami che richiedevo. Non mi hanno dato nessuna motivazione, non mi hanno spiegato nulla. Nessuno si è preoccupato di avvisare i pazienti visitati di recente del fatto che avessero trovato decine di casi di contagiati dal coronavirus nel loro staff.

Pazienti che, qualora fossero stati contagiati senza sviluppare sintomi, potrebbero essere stati un ulteriore veicolo di diffusione del virus. Perché, invece di essere sottoposti a una quarantena obbligatoria e consapevole, in queste settimane probabilmente sono entrate in contatto con altre persone, sono uscite per fare la spesa o per altre commissioni urgenti.

Non so quando la direzione della struttura è venuta a conoscenza della situazione e se ha messo in campo delle misure di sicurezza. O quando. E se il personale fosse informato dei fatti o se nella sede dove sono stata io ci fossero lavoratori con sintomi.

Non ho tutti gli elementi per poter valutare perché l’articolo non l’ho scritto io. Così, provo a sentire un paio di persone che lavorano in ambito sanitario, vedo se ne sanno qualcosa. Aspetto risposte. Intanto do un’occhiata al sito dell’Igea e leggo, a caratteri cubitali sotto la foto: “Rispetto per la persona”. Il sopracciglio mi si alza in un’espressione sarcastica.

Claudia Zanella

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