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Lettere a Litchfield – Una milanese a Parigi e il coronavirus: “Francesi incoscienti, italiani paranoici”

Un pizzaiolo italiano che tossisce e sputa sulla pizza al coronavirus: un video shock che forse voleva essere satirico mandato in onda dalla tv francese Canal+ e poi ritirato in seguito all’ondata di indignazione. Siamo a marzo. L’Italia è stata travolta da un nuovo virus di cui nessuno sa niente e i cugini d’Oltralpe ci prendono in giro. Fin quando il coronavirus colpisce anche loro. E la tregua estiva, in Francia, dura meno. A fine agosto la curva dei contagi torna a salire fino al picco a inizio novembre.

In questa seconda ondata, entra in lockdown prima dell’Italia. Ma come si sono comportati questa volta i francesi? Ce lo racconta, in questa lettera, Luisa Nannipieri, 35 anni, milanese, che da sette anni vive a Parigi.

Luisa Nannipieri

Care Orange,

sono settimane che vorrei scrivervi questa lettera ma continuo a rimandare. All’inizio perché ero tornata da poco a Parigi, dove vivo dal 2013, dopo aver passato un anno a Milano. E che anno! Tra una pandemia e una gamba rotta che mi ha fatto passare il primo lockdown in sedia a rotelle, direi che definirlo straniante è dire poco.

Insomma, ero appena tornata a Parigi, dopo l’estate, e stavo cercando di ritrovare i miei punti di riferimento. Difficile, però, ambientarsi in una città in cui nessuno sembrava prendere sul serio la pandemia e chi parlava di seconda ondata autunnale non era altro che una Cassandra.

Poco dopo il mio arrivo, Claudio, il mio ragazzo, scopre di essere un caso contatto: era uscito a bere qualcosa con gli amici di pallanuoto e una delle ragazze presenti gli ha comunicato il giorno dopo di avere il virus. Stava aspettando i risultati del test, ma era uscita lo stesso. Vi lascio immaginare gli accidenti che ho tirato quando, rassegnata, l’ho convinto a metterci in isolamento preventivo, rinunciando a salutare amiche che non vedevo da mesi. La cosa assurda è che la nostra decisione, visto che lui non aveva sintomi (e poi è risultato negativo), è stata vista un po’ come un’esagerazione dalla maggior parte dei nostri conoscenti. Gli stessi che pochi giorni dopo erano stupiti della decisione del governo di instaurare il coprifuoco.

Solo tra immigrati italiani ci si guardava con aria da intenditori, preparandosi psicologicamente a un nuovo lockdown e scuotendo la testa davanti ai ristoranti pieni e ai bar affollati. In cui tra l’altro andavamo lo stesso, perché finché si può, si approfitta. Rispetto delle distanze, dite? Non pervenuto. Che poi, io posso parlare solo di Parigi, perché amici in visita a fine ottobre mi hanno detto che il lockdown aveva trasformato città più piccole, come Grenoble, in deserti un po’ angoscianti.

Quello che mi ha colpito è stato proprio l’atteggiamento, diametralmente opposto in Italia e in Francia, nei confronti del rischio di ammalarsi. Non so se dipenda dal fatto che qui la maggior parte delle persone non vive in famiglia già dai 17 anni, dal numero di vittime che ha trasformato la Lombardia in una delle regioni più colpite dalla prima ondata o dal fatto che la disponibilità di test gratuiti abbia creato un falso senso di sicurezza. Perché, diciamocelo, di base il servizio sanitario dei due paesi non è che sia così diverso (almeno rispetto al Nord Italia).

Tornando all’atteggiamento: da un lato c’erano le nostre famiglie e amici, in Italia, che ci dicevano di stare attenti prima e che poi sono ripiombate nel panico quando anche da voi, in Italia, hanno reintrodotto le misure restrittive. Dall’altro noi, che andiamo a una festa a casa di amici o ci ritroviamo a bere in un bar la sera prima dell’inizio del coprifuoco. E che ripetiamo la procedura il pomeriggio prima del nuovo lockdown, con la scusa di un compleanno. Cercando di prendere tutte le precauzioni, mantenere le distanze, spostandoci solo in bici, rimanendo sul balcone e poi sentendoci terribilmente in colpa il giorno dopo. Ci siamo dati degli incoscienti almeno dieci volte, ma la cosa non mi ha impedito di andare a trovare il mio ragazzo al lavoro la settimana dopo e di magiare con lui e i suoi colleghi, tutti seduti vicini al tavolo delle riunioni. Dopo tutto, ho razionalizzato, se lui li vede tutti i giorni, cosa cambia se li vedo anche io?

Nemmeno il secondo lockdown ci ha impedito di vedere qualche amico. Alcuni a casa, altri al parchetto in pausa pranzo o per un caffè sorseggiato lungo il canale. La polizia non controllava e comunque era facile usare le autocertificazioni per stare in giro. Una visita dal fisioterapista qui, uno spostamento di lavoro là, l’ora d’aria a un chilometro da casa prima o la spesa poi. Trovare scuse per uscire non è difficile. Pensate che mentre scrivo queste righe, e fino al 15 dicembre, hanno esteso l’ora d’aria a 3 ore in un raggio di 20 chilometri. Bisognerà pur fare gli acquisti di Natale, no? E se allora in quelle tre ore vedo delle amiche al parco, chi può impedirmelo? In fondo, siamo solo noi due, non è come in Italia dove abbiamo dei genitori che hanno tra i 60 e gli 80 anni o un nonno che quest’anno ne fa 100. Non è come quest’estate, quando per poter fare le vacanze in famiglia noi ragazzi mangiavamo in giardino, per non rischiare di contaminare le persone a rischio.

Dopo oltre un mese di lockdown light, qui la situazione si sta normalizzando. Dal 15 dicembre non ci vorrà più l’autocertificazione per uscire di casa e, anche se tornerà il coprifuoco, il 25 e il 31 dicembre non ci sarà limite di orario. Se volessimo, potremmo tranquillamente andare in montagna, anche se gli impianti di risalita rimarranno chiusi e io non sono una grande fan dello sci di fondo.

Invece, torneremo in Italia.

Abbiamo già prenotato un test Pcr (un tampone, ndr) e prevediamo di fare una settimana di isolamento stretto prima del tampone. Per il viaggio in treno ci affidiamo alle mascherine Ffp2 e per fortuna saremo vicini. Ma le precauzioni non bastano a tranquillizzare alcuni parenti. “Il virus può passare anche dalle mucose oculari”, ha detto mia suocera, che a malincuore ha annullato la cena della vigilia. Onestamente, a volte penso che quelli preoccupati di tornare dovremmo essere noi: in Francia il picco è passato, in Italia non ancora.

Questi mesi parigini mi hanno ovviamente trasformata: se qui rimango tra le persone più prudenti e paranoiche, una delle poche ad andare in manifestazione con una Ffp3 (e non per i lacrimogeni), so che sono a mille leghe dall’isteria italiana. Ho scritto “isteria” non perché non sia cosciente che siamo nel bel mezzo di un’epidemia, ma perché ho paura dell’effetto che hanno avuto le misure restrittive e la crisi economico-sanitaria su chi è al di là della frontiera. Qui la gente è stufa, ma non filma le ambulanze per accusare i medici di aver tramato non si sa che complotto con non si sa che potere occulto. Certo che ci sono i no mask, i no vax e i negazionisti, ma sembrano meno attivi che in Italia.

Se qui si comincia ad essere preoccupati che gli aiuti statali non bastino, so che in Italia c’è chi li aiuti non li ha proprio visti. Quindi temo che scendendo dal treno troverò dei milanesi arrivati ben oltre – e giustamente – l’orlo della crisi di nervi. E se fossi in loro, probabilmente mi odierei anche io, che mi sposto nonostante la pandemia e che, in fondo, forse non mi angoscio abbastanza“.

orangeisthenewmilanoteam

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