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Coronavirus, “La mia battaglia per la laurea abilitante in Medicina. Ora fateci aiutare l’Italia”

Victor Campagna

“Diventare medico è un percorso. Un percorso vivido, difficile e per molti assimilabile, in realtà, a un incubo. Non credo che sia la realizzazione di un sogno: so che è un modo di dire, ma nasconde una visione sbagliata”. Victor Campagna, 31 anni, si è laureato in Medicina pochi mesi prima dello scoppio della pandemia all’università Statale di Milano. Ha le idee chiare su cosa vogliare dire, per lui, essere medico: “Significa creare un rapporto di cura e attenzione alla fragilità, e al rapporto che il paziente genera con la malattia, anche se è sempre più difficile farlo, perché spesso il medico nei nostri ospedali è misurato in base alla produttività e non alla qualità della cura”.

Dopo un doppio percorso di studi – prima in Lettere antiche e poi, a pochi esami dalla laurea, il cambio di rotta in Medicina “perché, come Socrate, volevo conoscere me stesso” – mira a diventare uno psichiatra. “Quello che voglio è costruire un rapporto di cura dell’altro fondato sulla parola”. Intanto, il medico umanista è a metà del cammino. Per un soffio è riuscito a completare il tirocinio post laurea per l’abilitazione all’esercizio della professione, ma si è trovato nel mezzo dell’emergenza del coronavirus in attesa di sostenere l’esame di Stato. “Era stato fissato per il 28 febbraio, poi è stato rinviato a data da destinarsi: una situazione inaccettabile”. E così, in questi mesi, si è battuto per chiedere al governo dei provvedimenti straordinari e ottenere l’abolizione del test scritto, rendendo così, di fatto, la laurea in Medicina abilitante alla professione. Oggi fa parte di quell’esercito di 10 mila medici annunciato dal ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, con il Cura Italia e approvato dal governo per velocizzare l’ingresso di nuove forze nel sistema sanitario. Ma, assicura, c’è ancora tanto da fare.

Victor Campagna

Una battaglia portata avanti insieme a un gruppo di giovani camici bianchi in tutta Italia, che hanno dato vita a un movimento, “ER – Ex Rappresentanti in prima linea”, nato durante l’emergenza del coronavirus. “Quando ci si laurea si è tutti in un non-luogo. Anche noi medici, che siamo visti come una categoria privilegiata. In realtà, il disagio della nostra generazione ha colpito anche noi, sotto molti aspetti”. Quest’anno, il primo ostacolo che si sono trovati ad affrontare i neo laureati in Medicina è stato quello dell’esame di Stato. “Quando ho saputo che il test sarebbe stato rimandato a data da destinarsi, ho fatto un giro di telefonate per creare un movimento nazionale che facesse qualcosa a riguardo. Si è creato un gruppo unito e compatto che ha chiesto al ministro di non lasciarci sospesi e di prendere dei provvedimenti straordinari, perché avevamo capito che la pandemia stava solo iniziando a colpire il nostro Paese e che sarebbe andata avanti a lungo”. E così è stato. “Dopo due mesi di incertezze, abbiamo ottenuto anche più di quello che chiedevamo”, ossia che la laurea in Medicina diventasse abilitante, senza ulteriori passaggi.

Un successo che però, osserva Campagna, non nasconde gli annosi problemi del sistema sanitario nazionale. Come i tagli del personale: dal 2009 al 2017 c’è stato un calo di 8 mila medici e di 13 mila infermieri, secondo i dati della Ragioneria dello Stato. E come la carenza di posti nelle scuole di specializzazione, con il conseguente imbuto formativo che si genera dal momento in cui sono pochi i posti a disposizione rispetto ai laureati in medicina. “Solo l’anno scorso sono rimasti esclusi dalle scuole di specializzazione 10 mila colleghi”. E quest’anno, che gli aspiranti specializzandi saranno molti di più, dopo che il governo ha reso la laurea in Medicina abilitante, il problema si fa ancora più grande.

Ma questi “eroi”, come venivano raccontati in una profusione di retorica durante il lockdown, si trovano a lottare ogni giorno per un posto di lavoro. La narrazione sul personale sanitario in prima linea ad affrontare il virus “è stata un’insulto all’intelligenza, più che un complimento”. Come molti colleghi, Campagna non ha visto di buon occhio la “celebrazione grottesca da parte di chi, per anni, non solo ha tagliato i posti letto negli ospedali, ma ha anche decrementato il personale e falcidiato il turnover”. Non solo. “Mi stupisce che, in questi mesi di tranquillità, il governo abbia escluso dal dibattito il tema del finanziamento della sanità”.

Mentre l’emergenza del coronavirus ha messo a dura prova l’Italia e il suo servizio sanitario nazionale – un sistema tra i migliori al mondo, fortemente indebolito però, negli ultimi quindici anni, dalla carenza di investimenti – gli esperti guardano già a ottobre, con la previsione di una seconda ondata di contagi. “Da medico, posso dire, senza troppe remore, che la situazione in Italia è problematica. Alcuni colleghi, che lavorano nelle Usca (unità speciali di continuità assistenziale, ndr) mi raccontano di come il Covid-19 non sia scomparso. I casi ci sono. Certo, sono fortemente diminuiti, ma credo che si sia fatto poco dal punto di vista dell’educazione sanitaria. E questo potrebbe portare a conseguenze spiacevoli nei mesi autunnali e invernali”. Ma più di tutto, a spaventarlo, è il fatto che ci sia un clima di “psicosi generalizzata”. La situazione è questa. “Prima, quando la pandemia era ancora oscura ai più per i suoi effetti, tutti temevano l’apocalisse e su questa base paranoica molte persone hanno letteralmente preso d’assalto i supermercati. Ora, invece, siamo in una fase opposta in cui si nega tutto e saltano all’occhio anche diverse figure pubbliche che negano la gravità del SarsCoV-19, alimentando anche qui un’atmosfera paranoica. Questo modo di agire porta a condotte sbagliate dall’una e dall’altra parte”.

E su questo aspetto, Campagna è convinto che una delle cause sia da cercare nella comunicazione da parte delle istituzioni. “Credo che se c’è una cosa che il governo ha sbagliato, ma anche la Lombardia e Milano, sia il fatto che non abbiano fatto nulla per dare un modello culturale ai cittadini: si è semplicemente usato il terrore e la paranoia come strumenti di controllo, perché è molto più facile accusare le persone che fanno jogging o chi usciva per le più svariate ragioni, rispettando tutte le norme igieniche del caso, che pensare a un’educazione costante al distanziamento sociale”.

Victor Campagna

In questi mesi ha avuto modo di riflettere e di guardare la gestione dell’emergenza da un punto di vista privilegiato. Ora, mentre si prepara per il concorso di ammissione alla specializzazione, sta sostituendo un medico di famiglia a Milano. Un’esperienza che aveva già in mente di fare, ma il suo sogno è proseguire per diventare psichiatra. Davanti a lui si prospettano diversi anni prima di raggiungere questo traguardo. “Quando dicono che vogliamo specializzarci per avere un privilegio mi sale un po’ di risentimento”, confessa. Perché sulla condizione degli specializzandi qui c’è molta confusione. Racconta che, a differenza del resto d’Europa, dove sono trattati come professionisti, quali sono, “in Italia sono considerati degli studenti”.

Un esempio recente di questa percezione ci riporta a giugno, quando c’è stato un focolaio di coronavirus all’ospedale Niguarda di Milano. Alcune testate giornalistiche, sull’origine del contagio, avevano puntato il dito proprio contro gli specializzandi (tesi smentita poi dallo stesso ospedale con una nota sul sito), definendoli “giovani studenti di medicina”. Un caso in cui, oltre a entrare in merito all’episodio, gli specializzandi del Niguarda, attraverso un comunicato, si sono ritrovati a spiegare che “un medico in formazione specialistica è già laureato, abilitato alla professione e in corso di specializzazione”.

Insomma, sono medici. E nel resto d’Europa, spiega Campagna, uno specializzando ha “un contratto pari a quello di uno strutturato, è trattato da professionista quale è ed è pagato con uno stipendio, in genere, molto più alto rispetto all’Italia”. Nel nostro Paese, invece, lo specializzando “non ha un contratto vero e proprio, non ha nessun diritto, ma solo doveri formativi, paga delle tasse universitarie spropositate, deve adempiere al pagamento di due enti previdenziali e di un’assicurazione. Viene pagato con una borsa di studio e quindi non può richiedere un mutuo”. E il loro contratto non prevede “una distinzione tra ferie e malattie, non ha diritto al servizio mensa né, tante volte, al parcheggio”. Anche per questo, assicura il medico, la battaglia è ancora lunga.

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