Il mio lockdown in Kazakistan fra inni, complotti e il lungo inverno a meno 52 gradi

Aleksej Tilman, 29 anni, milanese, ha trascorso il lockdown a Nur-Sultan (ex Astana), la capitale del Kazakhstan. La repubblica ex sovietica, l’ultima a dichiarare l’indipendenza nel 1991, confina a Est con la Cina: nella narrazione della pandemia da coronavirus in questi mesi è stato al centro di un litigio mediatico quando, a luglio, il governo cinese aveva cercato di propagandare il messaggio di una “polmonite kazaka”, più letale del Covid-19, diffusa in varie regioni del Kazakhstan: allarme poi smentito dall’Oms, che ha classificato i casi di polmonite individuati nel Paese come casi di Covid-19 non diagnosticato.

Aleksej Tilman

Secondo i numeri ufficiali, il Kazakhstan, ad oggi, registra 106 mila casi di coronavirus, di cui 1.600 decessi. A luglio il Paese, scosso da un’ondata di panico con le farmacie svuotate di farmaci antivirali e antipiretici, è tornato in quarantena dopo che i numeri dei nuovi contagi sono cresciuti in modo stabile nel corso di giugno e il sistema sanitario ha iniziato a mostrare segnali di crisi. È allora che Aleksej, una laurea in Relazioni internazionali e diverse esperienze all’estero, fino al viaggio in Kazakhstan come junior professional officer per l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), ha deciso di rientrare in Italia. “Il programma prevedeva di trascorrere sei mesi nel segretariato di Vienna e altri sei mesi in una delle missioni Osce in Europa dell’Est o in Asia. Da tempo desideravo andare nel continente asiatico: così ho chiesto di assegnarmi in una delle cinque missioni nella regione”. A gennaio è partito per Nur-Sultan. “Mi occupavo dell’organizzazione di eventi Osce con partecipanti internazionali. Ma, di fatto, ho lavorato nell’ufficio kazako per soli due mesi, poi ho continuato in smart working. Con lo scoppio della pandemia, gli eventi sono stati posticipati nella speranza di poterli svolgere nella seconda parte dell’anno”.

Il 16 marzo il Kazakhstan è entrato in lockdown, poco dopo che sono emersi i primi casi di Covid-19 nel Paese. “Inizialmente la situazione sanitaria non era allarmante. Sono state chiuse però tutte le attività non essenziali e il trasporto pubblico si è fermato. Il governo ha richiamato i riservisti dell’esercito per aiutare la polizia a pattugliare le strade. Non si poteva uscire, se non per fare la spesa”. Fino a maggio, quando sono state tolte tutte le misure restrittive nella capitale. E il primo giugno hanno rimosso anche i posti di blocco all’ingresso dei centri urbani. “Ma questa mancanza di controlli ha portato presto a un forte aumento dei contagi, fino al collasso degli ospedali”. Tanto che a luglio il Paese è tornato in lockdown, “anche se in modalità più morbida rispetto al primo”, osserva Aleksej.

Il lockdown di marzo, invece, è stato duro. “È coinciso con la fine del lungo inverno, quando la neve si scioglie e la città cambia completamente aspetto”, racconta Aleksej che, attraverso la finestra di casa, ha visto il paesaggio trasformarsi. “Per molte settimane, il campetto da calcio e i parchi giochi davanti al mio condominio sono rimasti vuoti. Vedevo passare una pattuglia di poliziotti diverse volte al giorno che fermava tutti i passanti. Nelle rare occasioni in cui uscivo, le strade, che solitamente erano molto trafficate, erano vuote. Al supermercato, d’un tratto, sono comparsi mascherine e termoscanner”.

Mentre in Italia, durante i mesi più difficili della pandemia, assistevamo a lunghe code fuori dai negozi di alimentari, a Nur-Sultan le file all’ingresso si vedevano solo davanti a banche e farmacie, che limitavano il numero di persone al loro interno. “Ricordo di avere fatto la coda davanti a una banca intorno al 10 aprile, proprio in coincidenza dell’ultima nevicata dell’anno”, dice Aleksej.

Nur-Sultan – tra le prime città asiatiche per tasso di crescita e sede di Expo nel 2017 quando ancora si chiamava Astana (rinominata nel 2019 in onore del presidente uscente, il dittatore Nursultan Nazarbaev, che controlla ancora oggi, di fatto, il Paese) –  si trova sul fiume Išim. È la seconda capitale più fredda del mondo: arriva a sfiorare temperature di 52 gradi sotto lo zero e per sei mesi all’anno è ricoperta di ghiaccio.

“La popolazione del Kazakistan, che è mediamente giovane, ha reagito in modo molto scettico al virus. A fasi alterne, è stato considerato dagli abitanti come una fake news o come un complotto americano o cinese per mettere in scacco il Kazakistan”, ricorda Aleksej. “Il lockdown ha creato tensione perché ha colpito l’economia di un Paese già in crisi più o meno dal 2014″.

La narrazione dei media ha giocato un ruolo significativo nel fare accettare tra la popolazione le misure restrittive adottate dal governo e creare un senso di unità nazionale di fronte alla minaccia del virus. “Sulla stampa il tutto veniva descritto come una guerra. Sono stati composti persino degli inni per glorificare l’operato di medici e infermieri e scacciare il virus (ad esempio, “Coronavirus vattene”). Rispetto a quanto avveniva in Italia, mi faceva sorridere il fatto che i conduttori televisivi indossassero le mascherine anche quando erano in diretta dallo studio”.

“Coronavirus vattene”

In questi mesi di pandemia, in cui, ammette, “non ho potuto conoscerlo come mi sarebbe piaciuto, ho avuto l’impressione che il Kazakistan sia un Paese che deve ancora trovare la sua strada”, osserva Aleksej. “Durante il lockdown si è visto bene come in tantissimi non credano a quello che dice il governo. Molti si informano su Internet, cadendo però facilmente nella trappola delle fake news”. Una confusione generata anche dal fatto che il kazako – insieme al russo, una delle due lingue ufficiali del Paese – non è parlato da tutti gli abitanti. Il governo sta cercando di correre ai ripari diffondendo l’uso della lingua, che però non ha un unico alfabeto. “Da tanti anni i kazaki stanno provando a passare dall’alfabeto cirillico a quello latino e il risultato è un pasticcio che emerge anche visivamente nelle strade dove si trovano pubblicità e cartelli scritti in lingue diverse”.

©Aleksej Tilman

Lontano dalla famiglia e dagli amici, in smart working a più di cinquemila chilometri di distanza da casa, Aleksej ha seguito l’evolversi della pandemia da un’altra prospettiva. “Dopo un periodo di iniziale scetticismo, le informazioni dall’Italia hanno iniziato ad allarmarmi. L’aggiornamento della Protezione civile delle ore 22 (le 18 ora italiana) è diventato un appuntamento fisso delle mie giornate, che però mi deprimeva sempre di più”. Ma il confinamento ha avuto anche degli effetti positivi. “È stato un modo per rimettermi in contatto con vecchi amici grazie alle videochiamate”. Come tutti, durante il lockdown, ha costruito un nuovo modello di “evasione” per passare le serate in compagnia, anche se attraverso uno schermo. “Abbiamo giocato un paio di partite a Diplomacy, una versione di Risiko online. Nonostante la distanza, gli animi si sono riscaldati velocemente, anche perché il gioco è basato su alleanze e pugnalate alle spalle”. E come gran parte degli italiani, ha cucinato. “Mi sono messo alla prova e ho imparato a preparare la pizza”, sorride. “Ho anche iniziato un corso di turco online, che altrimenti non avrei potuto fare”. Fino a luglio, quando la situazione dei contagi in Kazakhstan è precipitata mentre l’Italia si era lasciata alle spalle il lockdown e la situazione sanitaria si era stabilizzata. L’ambasciata gli ha indicato un volo speciale per Francoforte: “A quel punto, ho colto l’occasione. Ma le procedure per il rientro in Italia non erano chiarissime, anche perché variavano da regione a regione. In generale, era prevista una quarantena di 14 giorni per chi arrivava da paesi esterni all’area Schengen e mi sono regolato in conseguenza”.

©Aleksej Tilman

La quarantena l’ha trascorsa da solo in un appartamento a casa di un’amica di famiglia. Una volta atterrato a Linate, “ho visto i miei genitori e i miei zii da lontano, ho scambiato due parole con il taxista e poi, arrivato nella casa, sono crollato e ho dormito”. Così si è poi svegliato in un mondo parallelo, quello del confinamento nella propria città, Milano. “L’evento chiave della mia quarantena è stato il secondo giorno, quando ho trovato un nido di vespe sul balcone”, ricorda con ironia. “Ho trascorso la maggior parte del tempo in smart working, in attesa di riacquistare la mia libertà. In quarantena ho anche festeggiato il mio compleanno. I miei genitori e mia sorella sono venuti a salutarmi, a distanza: loro erano in cortile e io affacciato al balcone”. Fino alla fine dei 14 giorni. “Nonostante sia rientrato in Italia il 21 luglio, considero il 4 agosto, cioè la fine della quarantena, come la mia vera data di rientro”.

In questi giorni Aleksej è tornato a lavorare a Vienna, sede dell’Osce. Ma guarda già oltre, quando si metterà la parola fine alla pandemia da coronavirus, che ha interrotto i sogni di molti come lui: “Mi piacerebbe tornare in Asia centrale e vedere tutti quei posti che sognavo di visitare durante i miei sei mesi nella regione”.

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