Giorno 4 – Il giorno in cui ho conosciuto i miei vicini di casa. Dopo cinque anni

Oggi a Milano è successa una cosa strana.

Proprio ieri scrivevo che, dei miei vicini, conosco a malapena il cognome, anche se è scritto sul citofono. Poi è arrivato Adriano Celentano, e ha fatto la magia.

Abito a Milano da cinque anni. Non ho mai conosciuto i miei vicini di casa. Non è prassi, qui, suonare il campanello per chiedere un litro di latte o due uova per fare una torta. Il vicino è uno sconosciuto. Se lo incontri per le scale, lui prende l’ascensore. Se lo trovi a buttare la pattumiera, lui ti lascia la porta accostata. Buongiorno, buonasera. Nulla più.

Non è scortesia o maleducazione, è che ognuno, a Milano, ha la sua vita. E rispetta quella degli altri. Una reverenza laica piuttosto incomprensibile per chi non è nato qui. Ma a cui tutti, alla fin fine, si abituano.

Ognuno, dicevo, qui ha la sua vita. E anche io ormai ho imparato a farmi la mia. Questo è quello che pensavo, e che pensavamo tutti. Fino a ieri. Fino a quando, dalla Cina, non è arrivato un virus che ci ha messo tutti in pensione anticipata. Una pensione triste però: senza bar, senza amici e, soprattutto, senza aperitivi.

Sono le 18. Mia moglie e io ci affacciamo alla finestra. Dai palazzi di fronte non c’è nessuno, eppure le finestre sono aperte e c’è qualche luce accesa. Provo a dare fiducia a questi vicini sconosciuti. Oggi, più che mai, non ho niente da perdere. E allora dai, iniziamo a cantare. No, che vergogna. Dalla via a fianco il coro è già partito. Mi convinco che la mia strada, il mio palazzo non possono essere da meno. E allora cerco il testo della canzone sul telefono e inizio a cantare. Da sola, senza musica: un’ubriacona alla finestra.

“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua”. Mia moglie mi guarda ed è già pronta a chiudere la finestra. Ma per un attimo si dimentica di essere milanese e tira fuori la voce. Alla seconda strofa mi rimette sulla giusta tonalità. Ora siamo due allegre giovanotte che cantano da una finestra al quarto piano. Qualcuno mette il naso fuori dalla finestra. Al primo piano, accanto al negozio di animali, non aspettavano altro: sistemano lo stereo e direzionano le casse fuori dalla finestra. È fatta: abbiamo un coro.

“Ciao”.

Ho iniziato a fare ‘ciao’ con la mano a tutti quelli del palazzo di fronte.

Da bambina facevo questo gesto dalla macchina di papà. Quando il viaggio si faceva lungo e noioso, la bambina timida che era in me si trasformava tutt’a un tratto in una piccola, impavida peste. Iniziavo a guardare fuori, poi dietro. Sceglievo bene le mie vittime. Di solito puntavo su quello che aveva deciso di seguirci. Alla terza occhiata mi sembrava già di conoscerlo. Allora iniziavo a salutarlo. A raffica. Lo fissavo e gli facevo ‘ciao’ fino a quando non ricambiava. Se sorrideva, dopo un po’, mi ripresentavo. Che delusione quando, poi, senza avvisare, cambiava strada.

Mi deludevano tutti. Questa sera però i miei vicini sono rimasti. Hanno fatto ‘ciao’. We, ciao. Ciao, ciao, ciao. Da ogni finestra si agitavano mani. E, certo, anche note sguaiate.

In una giornata in cui il cielo azzurro non lo è mai stato, abbiamo cantato dalla finestra con i nostri vicini di casa. Abbiamo cantato “Azzurro” di Adriano Celentano, il ragazzo della via Gluck milanese anche lui.

Le due coinquiline del primo piano ci hanno fatto un video. Per averlo, da un palazzo all’altro sono volati contatti Instagram. Ora il nostro video è online. Abbiamo anche creato un gruppo: siamo una decina, per ora. Dal mio divano sto organizzando la playlist per domani: “A che ora ci affacciamo per cantare?”. No, non sembra proprio di essere a Milano. Fino a quando qualcuna scrive: “Facciamo anche l’aperitivo?”.

Seduta sul divano in questo anomalo sabato sera realizzo che, per la prima volta da quando abito qui, ho visto i miei vicini di casa. Abito in un condominio, sono circondata da palazzi alti. La mia via è piena di gente. Ma io non conosco nessuno.

Oggi, all’orario dell’aperitivo, dalla mia finestra li ho guardati. Li ho conosciuti proprio nel momento in cui le circostanze ci impongono di stare lontani, il più lontani possibile. Proprio quando un virus ci separa, ogni barriera è caduta.

Che strani, questi giorni. E questo virus, che ci cambia il presente e ci sbatte in faccia i ricordi di una vita.

Per più di vent’anni ho vissuto a Como e del mio condominio lì conoscevo tutto, ogni segreto di chi c’era e di chi ancora ci vive. Posso scrivere la storia di famiglia di ciascuno dei suoi sedici appartamenti.

Con quelle vite che non ho scelto, sono cresciuta e ho imparato a muovere i primi passi nel mondo. Dalla mamma del terzo piano ho mangiato la pasta con la salsa di pomodoro più buona che ancora oggi ricordo: antico rito di una famiglia del Sud trapiantata al confine con la Svizzera.

Poi c’era la coppia del primo piano: da loro ho imparato ad amare la vita per come è, perché io, diversamente da loro, posso vederla. Con loro ho imparato anche a non avere più paura del buio perché quando è tutto nero, nella tua testa e anche un po’ nel tuo cuore, puoi immaginare una vita a colori, anche se non ce l’hai.

Da bambina, in quel condominio, ho passato le estati più divertenti che potessi desiderare: passavo tre mesi nello stesso giardino, dalla mattina alla sera. Mentre i miei compagni di scuola andavano al mare, in montagna dalla nonna o a Gallipoli, io trascorrevo la mie vacanze in condominio.

Alle 10 del mattino ero davanti alla porta dei Ciriaco con la palla in mano e le ginocchia sbucciate. Con la fine delle scuole quell’appartamento si riempiva di nipoti e cugini. Avevamo tutti età diverse, ma non così distanti. Poi salivamo all’ultimo piano e chiamavamo i due fratelli. Al terzo piano, invece, c’erano le due sorelle. Una carovana di pantaloni corti e stringhe colorate che correvano su e giù per le scale, a dare la sveglia a tutti.

C’era poi chi, in agosto, andava in campeggio. E anche noi avevamo il nostro. Ci andavamo in bicicletta. Le mamme ci lanciavano dalla finestra vecchie lenzuola piene di buchi che noi stendevamo tra la ringhiera dei garage e le biciclette per creare le nostre tende. E così anche noi, per un pomeriggio, sognavamo di essere in vacanza. C’era solo una cosa che non capivamo, ed era perché gli adulti non ci facessero dormire lì, la notte.

Quelle giornate liete e spensierate dell’infanzia sono volate via. L’età adulta mi ha portato a Milano: qui ho trovato l’amore, nuovi amici, una bella vita. Milano mi ha dato tanto, ma non dei nuovi vicini. Fino a oggi.

E chissà se domani, terminato l’esilio da coronavirus, potrò presentarmi davanti alla porta di qualche nuovo vicino con la palla sotto braccio per fare due tiri al parco. E sbucciarmi, per una volta ancora, le ginocchia.

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